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Per un’alleanza femminista e transfemminista: vogliamo cambiare il mondo

La nostra rivoluzione non si ferma

Prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e di genere significa riconoscere il pensiero e la pratica femminista dei Centri antiviolenza come fondamento politico e sociale.

La violenza non è un fatto privato ma un problema strutturale, radicato nel patriarcato e nelle disuguaglianze di potere tra uomini e donne.

I Centri femministi e transfemministi sono spazi di libertà e trasformazione, dove le donne ricostruiscono la propria vita attraverso relazioni di sorellanza, ascolto e autodeterminazione.

Sono luoghi politici, non solo di accoglienza ma di cambiamento culturale e sociale.

Riconosciamo la pluralità delle esperienze e le differenze territoriali, economiche e sociali, garantendo l’esigibilità dei diritti soprattutto alle donne migranti, alle razzializzate, e alle donne con disabilità, che assumono molteplici livelli di violenza e discriminazioni.

L’ascolto, fondato sull’autodeterminazione della donna, sull’anonimato, sulla riservatezza, è pratica politica e atto di libertà.

La violenza di genere è una questione pubblica e collettiva: il suo superamento richiede coscienza comune, azione condivisa e rivoluzione culturale.

Rimuovere le cause della violenza alle donne e della violenza di genere significa agire un ribaltamento strutturale delle relazioni economiche, sociali e culturali su cui si fonda la società.

Chiamiamo a raccolta le donne e le soggettività che riconoscono la natura e l’origine della violenza nella disparità di potere tra uomini e donne e nel patriarcato.

La nostra rivoluzione è femminista, transfemminista e intersezionale – una rivoluzione delle relazioni, per trasformare il mondo e costruire libertà per tutte le donne e tutte le soggettività.

Questo manifesto nasce dal dialogo tra movimenti, associazioni e organizzazioni con posizionamenti femministi e transfemministi diversi fra loro. Riconosciamo gli sguardi che lo compongono e lo sforzo corale che lo sostiene come base per la costruzione di alleanze praticate con sorellanza, contro gli attacchi feroci che vedono coinvolte le donne e tutte le soggettività.

Vogliamo aprire un dialogo e tessere un’alleanza tra donne, soggettività femministe, tra tutte le persone e tutte le realtà che riconoscono la violenza contro le donne come violazione dei diritti umani, per costruire insieme una società libera, giusta e fondata sull’uguaglianza tra tutte e tutti.

IL MANIFESTO FEMMINISTA E TRANSFEMMINISTA
PER IL 25 NOVEMBRE 2025

1.     Centri Antiviolenza

Sono sempre dalla parte delle donne.

Chi non agisce con e per le donne non può dirsi Centro Antiviolenza.

I Centri sono spazi femministi e transfemministi, luoghi politici che difendono e promuovono la libertà femminile.

Perseguono l’interesse e il benessere delle donne e delle loro figlie e figli, anche quando questo significa confliggere con le istituzioni.

I Centri Antiviolenza sono spazi aperti a tutte le soggettività femministe e transfemministe, dove la relazione tra donne, persone trans, non binarie e razzializzate, diventa azione politica comune irrinunciabile, in contrasto con la tendenza istituzionale a ridurli a servizi sociali neutri o depoliticizzati.

L’ascolto e la cura sono pratiche di trasformazione collettiva che riconoscono la pluralità delle esperienze di violenza e di resistenza.

Per continuare ad esserlo devono essere sostenuti da politiche pubbliche stabili e da finanziamenti strutturali per garantirne autonomia, radicamento territoriale e capacità di agire in rete. Mancanza di fondi e precarietà delle operatrici sono forme di sabotaggio istituzionale.

Le differenze territoriali, sia per l’accesso ai servizi che alle risorse, ostacolano i percorsi di uscita dalla violenza. È necessario un riequilibrio concreto che garantisca parità di diritti in tutto il Paese.

La violenza non è un conflitto, ma espressione di un sistema di potere patriarcale che attraversa relazioni intime, istituzioni, linguaggi e norme.

Rifiutiamo l’imposizione di modelli di intervento come la mediazione, la giustizia riparativa come prospettata nell’attuale legislazione vigente, o la subordinazione a logiche burocratiche e securitarie che negano l’autodeterminazione delle donne.

Il lavoro dei Centri non può essere misurato solo con numeri o prestazioni erogate.

La qualità della relazione, la possibilità per ogni donna di scegliere il proprio percorso, sono elementi centrali e insostituibili.

I dati raccolti devono essere disaggregati per genere e usati per migliorare le pratiche e le politiche pubbliche, non per valutarne la “resa” secondo logiche aziendalistiche. Devono essere previste risorse economiche a sostegno del lavoro di raccolta e di analisi dei dati da parte dei Centri antiviolenza

I Centri Antiviolenza sono i soggetti più competenti sulla violenza di genere. Devono essere interlocutori imprescindibili nella definizione delle politiche nazionali e locali, con un ruolo attivo di monitoraggio e valutazione delle azioni istituzionali, in quanto spazi di libertà, di resistenza e di elaborazione politica.

2.     Contro le retoriche di governo

Diciamo no alle false e strumentali retoriche della “protezione” che limitano la libertà di scelta delle donne. La violenza non è un’emergenza: la casa rifugio deve essere una possibilità di aiuto, non un obbligo.

Rifiutiamo la giustizia riparativa imposta e le proposte di legge che negano o minimizzano la violenza, riducendola a conflitto e sacrificando donne, bambine e bambini sull’altare ideologico della bigenitorialità. Diciamo no alle politiche meramente securitarie, alla rimozione della violenza dallo spazio pubblico e alla sua riduzione a fatto privato.

Rifiutiamo la retorica paternalista che parla di protezione senza riconoscere la piena soggettività e autonomia delle donne e di tutte le soggettività.

Le misure emergenziali e securitarie non affrontano le cause strutturali della violenza: generano controllo e dipendenza.

La sicurezza delle donne non si costruisce con il paternalismo, ma con libertà, risorse e autodeterminazione

Respingiamo la propaganda che usa il linguaggio della tutela per giustificare restrizioni dei diritti: dagli attacchi all’aborto libero e sicuro, ai tentativi di limitare la libertà educativa e la diffusione dei percorsi di educazione sessuo-affettiva nelle scuole.

Denunciamo la strumentalizzazione dei femminicidi da parte delle destre e delle istituzioni che, mentre si appropriano del dolore delle donne, continuano a ignorare le richieste dei Centri e a sottrarsi alla responsabilità di costruire politiche strutturali di prevenzione. Allo stesso tempo, negano risorse adeguate fondate su un’analisi regolare dei bisogni, condizione indispensabile per politiche antiviolenza realmente efficaci.

Rifiutiamo la criminalizzazione dei movimenti femministi e transfemministi, così come la delegittimazione delle lotte per l’autodeterminazione dei corpi e dei desideri.

La nostra libertà non è negoziabile né addomesticabile.

3.     Responsabilità del sistema

Le donne non devono difendersi nei tribunali per la violenza subita, in nessuna delle sue forme. Attribuire alle donne la responsabilità della violenza significa produrre vittimizzazione secondaria e spostare la colpa su di loro. Così facendo, diventano autori di violenza anche tribunali, consulenti tecnici, servizi sociali, forze dell’ordine e servizi sanitari.

L’autodeterminazione delle donne viene negata.

Il patriarcato esiste, e continua a produrre i suoi effetti.

Le prassi giudiziarie che ignorano la parola delle donne, le decisioni dei tribunali intrise di stereotipi sessisti, i servizi sociali che colpevolizzano le madri e minimizzano la violenza maschile costituiscono la responsabilità istituzionale e sistemica nella riproduzione della violenza.

Formazione su violenza di genere, stereotipi e discriminazioni a magistratura, forze dell’ordine, operatrici e operatori dei servizi sociali e sanitari: non deve essere episodica e deve essere affidata alle esperte dei centri antiviolenza femministi e transfemministi capaci di produrre un reale cambiamento culturale e di lettura del fenomeno.

Le istituzioni devono assumersi la piena responsabilità di finanziare politiche di contrasto efficaci, fondate sulle competenze dei Centri antiviolenza femministi e transfemministi, e di costruire sistemi di monitoraggio basati su dati disaggregati per genere, territorio e condizione socioeconomica.

La responsabilità del sistema è anche politica: ogni taglio, ogni ritardo, ogni disattenzione è una forma di violenza istituzionale contro le donne.

4.     Responsabilità maschile

La violenza è sempre responsabilità di chi la compie e di chi usa il corpo delle donne come strumento di dominio, anche attraverso i mezzi digitali.

Non esiste giustificazione possibile: la responsabilità maschile deve essere nominata.

La violenza maschile contro le donne e di genere non è un fatto individuale, ma collettivo.

Riguarda la costruzione culturale della maschilità e i modelli di potere e controllo che la sostengono.

Serve un cambiamento profondo nella socializzazione maschile e nelle rappresentazioni culturali che legittimano la violenza, l’appropriazione e il controllo.

Gli uomini devono assumersi la responsabilità politica e pubblica di mettere in discussione i privilegi patriarcali.

È urgente aprire spazi pubblici di confronto sulla responsabilità maschile, sul potere e sulle relazioni, promuovendo pratiche di decostruzione dei modelli violenti di maschilità, a partire dalla scuola.

5.     Educazione e relazioni

La prevenzione, pur spesso invocata, è negata nei fatti.

Le nuove proposte di legge la ostacolano e la svuotano di senso.

È necessario garantire nelle scuole un’educazione sessuo-affettiva, al consenso, alle differenze, alla salute e al benessere, fondata su relazioni di rispetto reciproco.

Queste attività devono essere affidate a esperte e professioniste con esperienza pluriennale nella prevenzione e nel contrasto alla violenza di genere, in coerenza con il quadro giuridico e teorico della Convenzione di Istanbul.

L’educazione deve essere continua, diffusa e accessibile in tutti gli ordini scolastici, universitari e nei luoghi di formazione professionale. Deve promuovere il rispetto dei corpi, delle identità e dei desideri, decostruendo stereotipi e ruoli imposti dal patriarcato.

I programmi scolastici devono includere la formazione sessuo-affettiva, l’educazione all’uguaglianza di genere, al consenso, alle relazioni libere dalla violenza e alla salute riproduttiva, coinvolgendo le esperte dei Centri Antiviolenza femministi e transfemministi.

Ci opponiamo ai tentativi politici e ideologici di censurare o vietare questi percorsi, come nel caso del DDL Valditara.

L’educazione deve essere intersezionale: capace di riconoscere e valorizzare la pluralità delle esperienze e delle soggettività, mettendo al centro libertà, consenso e rispetto reciproco come valori fondativi.

6.     Quali politiche?

Vogliamo politiche di genere, non misure di mera assistenza.

Oggi il lavoro precario, povero e sottopagato rappresenta spesso l’unica risposta per le donne. Costringerle nel ruolo di cura e di supplenza del welfare significa negare la loro libertà, la loro autodeterminazione e il loro diritto a una vita libera da ogni forma di violenza, anche economica.

Le politiche per le donne devono fondarsi sulla redistribuzione, sull’autonomia e sulla giustizia sociale — non sulla delega né sulla carità.

È necessario riconoscere il lavoro di cura come lavoro politico e sociale, redistribuirlo tra i generi e sostenerlo con risorse pubbliche adeguate.

Vogliamo un piano nazionale di politiche delle donne e di genere che garantisca occupazione stabile, parità salariale, accesso alla casa, servizi educativi e sanitari, e strumenti di protezione sociale per le donne in uscita dalla violenza.

Le politiche pubbliche devono inoltre considerare le disuguaglianze territoriali, linguistiche e culturali e i limiti imposti dal permesso di soggiorno, in particolare nel caso in cui vi siano ricongiungimenti familiari, che incidono sull’accesso ai diritti delle donne migranti, delle donne con disabilità, delle donne razzializzate e di tutte le soggettività marginalizzate.

Rifiutiamo politiche che riducono la libertà femminile a questione di gestione sociale o emergenziale. Le politiche di genere devono essere strutturali, finanziate e monitorate, con indicatori disaggregati per genere, territorio e classe.

7.     Intersezionalità della violenza

La violenza patriarcale si manifesta in forme diverse, determinate dall’intreccio di molteplici assi di oppressione.

Le caratteristiche individuali e sociali — in un sistema che produce disuguaglianze — determinano diversi livelli di esposizione alla violenza e alla discriminazione, generando esperienze complesse e specifiche.

Queste violenze non si sommano semplicemente, ma si intrecciano, producendo dinamiche multiple e stratificate.

Povertà, giovane età o anzianità, orientamenti sessuo-affettivi non eterosessuali, identità di genere non conformi alla norma patriarcale, processi di razzializzazione, razzismo istituzionale, disabilità e società abilista, neurodiversità, neurodivergenza e psichiatrizzazione sono dimensioni che, lette in chiave intersezionale, permettono di prevenire, riconoscere e contrastare la violenza contro le donne e la violenza di genere.

Solo riconoscendo come il patriarcato si intrecci con razzismo, classismo, abilismo, omolesbobitransfobia e logiche coloniali è possibile comprendere la complessità della violenza e agire per trasformarla.

I Centri Antiviolenza vogliono essere luoghi in cui ogni soggettività trovi ascolto e riconoscimento, dove le differenze siano considerate una risorsa politica, non un ostacolo.

Chiediamo che le istituzioni raccolgano e diffondano dati disaggregati che rendano visibili le diverse forme e intersezioni della violenza, con attenzione alle specificità territoriali e alle condizioni di vita delle donne migranti e razzializzate e raccolgano dati su fenomeni ancora non rilevati come ad esempio le diverse forme della violenza digitale.

La prospettiva intersezionale è un metodo politico e teorico indispensabile per costruire giustizia di genere e giustizia sociale.

8.     Controllo dei corpi

La violenza patriarcale agisce in modo sistemico per controllare e normare i corpi.

Ostacolare, ridurre o negare il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito, è una forma di violenza in crescente escalation.

Allo stesso scopo risponde l’accanimento contro le persone trans e non binarie: processi di marginalizzazione, invisibilizzazione, criminalizzazione e discriminazione che si moltiplicano con ferocia.

Impedire l’autodeterminazione dei corpi femminili e femminilizzati resta uno degli obiettivi centrali del patriarcato.

È un obiettivo dichiarato dell’attuale Governo e va denunciato con chiarezza.

Difendere il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito significa difendere la libertà e la democrazia.

La negazione di questo diritto fa parte di un disegno politico più ampio di controllo sui corpi, sulla sessualità e sulle scelte di vita.

L’autodeterminazione è un principio politico universale: nessuna legge, istituzione o religione può decidere al posto dei corpi che vivono e subiscono le conseguenze delle scelte imposte.

Esigiamo la piena applicazione della legge 194, il potenziamento dei consultori pubblici e la presenza di personale sanitario non obiettore, per garantire accesso reale all’interruzione volontaria di gravidanza in tutto il territorio nazionale.

Denunciamo il controllo istituzionale, mediatico e religioso sui corpi delle donne e delle persone LBTQIA+, che si manifesta attraverso moralismo, censura e patologizzazione delle differenze.

La libertà dei corpi è alla base di ogni libertà politica.

Difendere l’autodeterminazione corporea significa opporsi alla violenza patriarcale, al razzismo e a ogni forma di oppressione strutturale.

9.     Militarizzazione, colonizzazione e guerra

Guerra, ecocidio e genocidio – come vediamo in Palestina e in tante altre parti del mondo – sono forme estreme della stessa logica di potere che sta dietro al femminicidio: il dominio patriarcale.

Sono atti di annientamento del corpo, della terra e dei popoli, che nascono da una lunga catena di violenze e dalla stessa volontà di controllo, possesso e cancellazione.

Dentro la logica patriarcale, il corpo femminile diventa territorio da conquistare, e lo stupro di guerra uno strumento di occupazione e profanazione.

Riconosciamo la connessione profonda tra violenza patriarcale, colonialismo, razzismo, sfruttamento economico e devastazione ambientale.

Le guerre e le occupazioni sono espressione della stessa cultura di dominio che attraversa le relazioni di genere.

Denunciamo l’aumento della spesa militare, la militarizzazione dei confini, la criminalizzazione della solidarietà e delle migrazioni: tutto questo produce morte, violenza e disuguaglianza.

Le donne e le soggettività femministe e transfemministe in tutto il mondo resistono a queste logiche di potere: contro i genocidi, contro gli stupri di guerra. Pensiamo a tutte: alle palestinesi, alle curde, alle iraniane, alle afgane, agli uigure, alle Rohingya, alle congolesi, alle sudanesi, alle etiopi, alle nigeriane, alle ucraine, a tutte le donne di popolazioni indigene vittime delle tante guerre nel mondo, e alle attiviste ecologiste.

Le loro lotte sono parte integrante del nostro movimento.

La pace non è neutralità: è un progetto politico di giustizia, libertà e autodeterminazione dei popoli e dei corpi.

Ci opponiamo alla retorica bellicista e chiediamo la fine di ogni complicità italiana e internazionale con regimi e governi che violano i diritti umani.

Il patriarcato si manifesta anche nel linguaggio della guerra, che riduce la vita a strategia, territorio o risorsa. Noi scegliamo la cura, la solidarietà e la resistenza collettiva come pratiche di pace.

10.     Tante parole, pochi fatti

I piani istituzionali non offrono risposte vere né adeguate.

Non partono dai bisogni reali delle donne né dall’esperienza dei Centri antiviolenza femministi.

Prevedono servizi neutri, privi di risorse e tempi di verifica, e non finanziano interventi di prevenzione capaci di incidere sulle radici della violenza.

Così si mettono a rischio i percorsi di uscita dalla violenza, imponendo itinerari predefiniti e vincolanti, costruendo sistemi di mera riduzione del danno che non scalfiscono il patriarcato.

È una responsabilità grave delle istituzioni, che denunciamo con fermezza.

La retorica istituzionale che parla di emergenza mentre smantella i servizi e indebolisce i Centri è una forma di violenza politica

Le politiche pubbliche non sono solo assenti: spesso agiscono come strumenti di sabotaggio attivo. Tagli, ritardi e definanziamenti non sono casuali: servono a svuotare di senso e di forza le pratiche femministe e transfemministe dei Centri Antiviolenza.

Denunciamo il linguaggio della neutralità che permea i documenti istituzionali: parlare di “violenza di genere” senza nominare la violenza maschile e il patriarcato significa negarne la radice.

Le nostre pratiche, invece, costruiscono futuro, libertà e giustizia sociale.

Le politiche nazionali e locali devono essere co-progettate con i Centri antiviolenza femministi, riconoscendone la competenza politica e metodologica, e garantendo tempi, fondi e strumenti di monitoraggio indipendenti.

Ogni piano contro la violenza deve prevedere la valutazione d’impatto di genere, l’obbligo di rendicontazione pubblica e la partecipazione attiva delle reti femministe e transfemministe ai processi decisionali.

Vogliamo cambiare il mondo.

La nostra rivoluzione non si ferma.

Costruiamo alleanze femministe e transfemministe che ci vedano unite nelle lotte contro la violenza patriarcale e ogni forma di oppressione.

Il 25 novembre e ogni giorno dell’anno sono momenti di lotta collettiva, di visibilità e di connessione tra movimenti, reti e territori.

Nessuna trasformazione sarà possibile senza la partecipazione attiva e la presa di parola di tutte le soggettività femministe e transfemministe.

Continueremo a costruire un comune linguaggio e pratiche politiche condivise, a partire dai Centri antiviolenza, per dare forza e continuità a un movimento che attraversa confini, generazioni e differenze.

La nostra rivoluzione è concreta: vive nelle relazioni, nei corpi, nelle strade, nei Centri, nelle scuole, nei tribunali, nei luoghi di lavoro e di cura.

È una rivoluzione quotidiana fatta di solidarietà e disobbedienza, di ascolto e di azione.

Continueremo a tessere alleanze, a denunciare la violenza patriarcale in tutte le sue forme, per costruire una società giusta, libera e intersezionale, fondata su autodeterminazione, sorellanza e libertà per tutte e tutti.


Organizzazioni aderenti

Action Aid
ALFI – Associazione Lesbica Femminista Italiana
Ambiente Sociocultural International
Antigone Pavia
ASI Calabria
Assemblea Donne del Coordinamento Migranti
Be Free
Casa delle Donne – Sportello Antiviolenza di Jesi 
Centro Antiviolenza Marielle Franco – Alessandria
Centro di cultura delle donne Hannah Arendt di Teramo
Codice Kairòs APS
Conferenza Nazionale Donne Democratiche
Conferenza Donne Democratiche, Ferrara
Coordinamento dei Centri Antiviolenza dell’Emila Romagna
Educare alle differenze
Liberas Cagliari
Forum Donne Amelia
GiuridicaMente Libera 
NonUnaDiMeno
NonUnaDiMeno Siena 
Nuova Società Futura Per i diritti di donne, madri e minori
Period Think Tank
Poliredis collettivo
Rete di Donne per la Politica
Rete femminista Marche Molto più di 194 
RISING – Pari in Genere
Rumorossə 
UDI Bologna
UDI Ferrara
UDI Genova
UDI Reggio Calabria
UDI Carpi

Singole attiviste

Azzaro Angela
Busi Beatrice
Canitano Lisa
Cipolloni Giada
Del Pomo Erika
Maltese Felicetta
Mancinelli Patrizia
Proia Francesca
Renzi Angelica
Rocco Zdenka
Ruggerini Maria Grazia
Sozzani Ida Paola
Toffanin Angela Maria
Vicinanza Carmen

Dal femminismo americano al separatismo italiano: quando il personale diventa politico

Il femminismo moderno nasce negli Stati Uniti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in un periodo di profonde trasformazioni sociali. È l’epoca dei movimenti per i diritti civili, delle lotte contro la guerra in Vietnam, delle contestazioni studentesche. In quel fermento di libertà e rivendicazioni, molte donne si accorgono di un paradosso: anche nei movimenti che chiedono giustizia e uguaglianza, la loro voce resta in secondo piano. Sono loro a organizzare, a scrivere volantini, ma raramente vengono ascoltate o considerate soggetti politici a pieno titolo. Da questa contraddizione nasce la consapevolezza che la liberazione delle donne non può essere solo una parte del cambiamento, ma un cambiamento radicale in sé.

È in questo contesto che emerge una delle frasi più emblematiche del femminismo: “il personale è politico”. A pronunciarla, nel 1969, è la femminista americana Carol Hanisch, ma il concetto diventa presto un manifesto collettivo. Significa che le esperienze intime e quotidiane delle donne – la maternità, la sessualità, la violenza domestica, la distribuzione del lavoro in casa – non sono problemi privati, ma conseguenze dirette di un sistema patriarcale che organizza la società e le relazioni. Il femminismo sposta così il confine della politica: non più solo lo spazio pubblico, ma anche la vita privata, la casa, il corpo. Parlare di sé diventa un atto di ribellione, una forma di presa di coscienza. Da qui nascono i gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne si incontrano per raccontarsi e riconoscere, nelle proprie esperienze personali, meccanismi comuni di oppressione.

L’arrivo in Italia e la nascita del separatismo femminista

Questo nuovo modo di pensare e di fare politica attraversa presto l’Atlantico e arriva in Italia, dove il contesto è diverso ma la sete di libertà è la stessa. Siamo negli anni Settanta, un decennio di grandi tensioni sociali e cambiamenti profondi: i movimenti studenteschi, le lotte operaie, la crisi dei ruoli tradizionali. In questo terreno fertile nasce il femminismo italiano, che prende ispirazione dalle esperienze americane ma sviluppa una propria voce originale, spesso più intima, più esistenziale.



Tra le prime e più importanti esperienze italiane c’è Rivolta Femminile, fondata nel 1970 a Roma da Carla Lonzi, Carla Accardi, ed Elvira Banotti. Lonzi, in particolare, è una figura centrale: critica d’arte, intellettuale e scrittrice, lascia il mondo accademico e maschile della critica artistica per dedicarsi interamente alla riflessione femminista. Nei suoi scritti – Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale, Taci, anzi parla – Lonzi afferma con forza la necessità per le donne di parlare con la propria voce, di liberarsi da qualsiasi mediazione maschile.



Da Rivolta Femminile nasce una pratica politica nuova: l’autocoscienza. Le donne si riuniscono in piccoli gruppi per raccontarsi, per scoprire che ciò che pensavano fosse un disagio personale è in realtà un’esperienza condivisa. In quelle stanze si parla di corpo, di sesso, di maternità, di desiderio, di lavoro domestico, di violenza. È lì che il motto “il personale è politico” prende forma concreta: la consapevolezza personale diventa materia politica.



Da questa pratica discende anche il separatismo, cioè la scelta di creare spazi solo femminili, liberi dall’influenza e dallo sguardo maschile. Non si tratta di odio o di chiusura, ma di un atto di libertà: la necessità di costruire una soggettività autonoma, di imparare a riconoscersi e a definirsi senza il filtro del patriarcato. I gruppi separatisti diventano luoghi di crescita, di relazione, di parola. Luoghi dove la differenza femminile si scopre e si valorizza.



In quegli stessi anni, un testo collettivo nato negli Stati Uniti, Noi e il nostro corpo, tradotto e diffuso anche in Italia, contribuisce a cambiare per sempre il modo di parlare del corpo femminile. È scritto da un gruppo di donne comuni, non da medici o esperti, e affronta temi come la sessualità, la salute riproduttiva, il piacere, la contraccezione, la maternità. Quel libro, tradotto, discusso e condiviso nei gruppi italiani, diventa un simbolo di conoscenza e di autodeterminazione: le donne si riappropriano del sapere sul proprio corpo, togliendolo di mano alla medicina e alle istituzioni maschili.



Dalla teoria alla pratica: la nascita dei centri antiviolenza

Da questi spazi di confronto e di libertà nascono anche nuove forme di azione concreta. A partire dalla fine degli anni Settanta, e poi negli anni Ottanta e Novanta, si moltiplicano in Italia i centri antiviolenza. Nati da gruppi di donne e da collettivi femministi, i centri rappresentano la continuazione naturale del pensiero separatista: luoghi costruiti da donne per le donne, dove la violenza maschile non è trattata come un fatto privato o patologico, ma come un problema politico e sociale. In questi centri, le donne trovano ascolto, protezione, solidarietà e strumenti per ricostruire la propria vita. Ma soprattutto trovano un riconoscimento: quello di non essere sole, di non essere colpevoli, di appartenere a una storia collettiva di resistenza.

Così, dal femminismo americano all’esperienza italiana, il percorso si intreccia in un filo continuo: dalla presa di coscienza individuale alla solidarietà collettiva, dal corpo al linguaggio, dal personale al politico. Il separatismo, lungi dall’essere un isolamento, diventa allora un modo per rinascere, per riscrivere il mondo partendo da sé.



E ancora oggi, nei centri antiviolenza, nelle reti femministe, nelle voci di tante donne che si raccontano e si ascoltano, risuona la stessa convinzione che animava le prime militanti: che la libertà comincia quando una donna riconosce nella propria storia una storia comune, e capisce che da lì può nascere il cambiamento.




L’eredità del separatismo oggi



A distanza di oltre cinquant’anni dalle prime pratiche di autocoscienza, l’eredità del femminismo degli anni Settanta continua a essere viva e, oggi più che mai, al centro del dibattito pubblico. Gli stessi principi che diedero vita ai centri antiviolenza e alle case rifugio – la sorellanza, la libertà, la consapevolezza, lo spazio sicuro per le donne – sono tornati prepotentemente alla ribalta in Italia in queste settimane.



Il recente caso dell’associazione Artemisia, espulsa dalla rete DiRe (Donne in Rete contro la Violenza) per la decisione di aprire le iscrizioni anche agli uomini, ha riacceso la discussione sul significato e sulla necessità del separatismo femminista. La scelta di DiRe di mantenere ferma la propria impostazione – quella di una rete formata e guidata esclusivamente da donne – non è una chiusura, ma la riaffermazione di una visione politica radicata nella storia del movimento femminista.

Come ricordano le attiviste di DiRe, i centri antiviolenza e le case rifugio femministe non sono soltanto luoghi di accoglienza, ma spazi politici dove le donne possono riconoscere e decostruire le radici della violenza maschile. Sono nati proprio come risposta autonoma e indipendente alla necessità di protezione, ma anche di rinascita: luoghi dove la violenza non è interpretata come un fatto privato o patologico, bensì come il risultato di una cultura patriarcale che assegna alle donne ruoli di subordinazione.



La presidente di Onda Rosa, Luisanna Porcu, ha spiegato chiaramente il senso di questa posizione: “La presenza solo femminile nelle associazioni che li gestiscono non è una discriminazione ma una scelta di libertà. Serve a spezzare le dinamiche di controllo e di dominio che la violenza maschile riproduce ovunque. Serve a garantire uno spazio sicuro, dove nessuno debba misurare le parole o tradurre il proprio dolore sotto lo sguardo maschile.”

Le parole di Porcu riassumono perfettamente la continuità tra il separatismo degli anni Settanta e le pratiche di oggi: senza spazi solo femminili, non ci sarebbe quella rete di sorellanza che, in mezzo secolo di impegno, ha permesso a migliaia di donne di trovare voce, forza, libertà.



La decisione di DiRe ha suscitato un vasto movimento di solidarietà: un appello, diffuso sui social e firmato da centinaia di femministe, ha riaffermato l’importanza di difendere questi spazi politici, soprattutto nel cammino verso il 25 Novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Proprio ora che le risorse pubbliche per i centri antiviolenza sono scarse e spesso gestite senza una visione strategica, questo l’accanimento su DiRe sembra una scelta politica per delegittimarne il ruolo. La rete DiRe ha inoltre denunciato la mancata consultazione dei centri femministi nella stesura del nuovo Piano Strategico Nazionale sulla Violenza Maschile contro le Donne, predisposto dal Dipartimento per le Pari Opportunità. Un’esclusione che, secondo le attiviste, dimostra come le istituzioni tendano a privilegiare un approccio punitivo e burocratico, trascurando le pratiche concrete e la conoscenza maturata in decenni di lavoro nei centri femministi.



DiRe ha espresso con forza la propria posizione: “Rivendichiamo l’importanza del riconoscimento dell’operato dei Centri antiviolenza con approccio di genere. Il nostro è un lungo cammino fatto di ascolto, protezione, affiancamento e diritti. Sconfessare questa storia significherebbe negare la nostra stessa storia femminista, perché ne andrebbero di mezzo tutte noi donne, i nostri bisogni, i nostri diritti, le nostre speranze.”

Un’eredità che continua

In questa presa di posizione si riflette tutto ciò che il femminismo ha costruito: la consapevolezza che la violenza maschile è un fatto politico, che il corpo e la parola delle donne devono restare liberi, e che senza spazi autonomi non c’è emancipazione possibile e non c’è libertà.

Così, il dibattito di oggi non è che l’eco di quello di ieri. Le donne che negli anni Settanta fondavano i primi collettivi e i centri di autocoscienza non avrebbero avuto dubbi: difendere il separatismo significa difendere la possibilità stessa di parlare, di esistere come soggetti liberi. E forse, proprio per questo, il femminismo continua a essere così vivo, così attuale, così necessario.