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Tag: femminismo separatista

Dal femminismo americano al separatismo italiano: quando il personale diventa politico

Il femminismo moderno nasce negli Stati Uniti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in un periodo di profonde trasformazioni sociali. È l’epoca dei movimenti per i diritti civili, delle lotte contro la guerra in Vietnam, delle contestazioni studentesche. In quel fermento di libertà e rivendicazioni, molte donne si accorgono di un paradosso: anche nei movimenti che chiedono giustizia e uguaglianza, la loro voce resta in secondo piano. Sono loro a organizzare, a scrivere volantini, ma raramente vengono ascoltate o considerate soggetti politici a pieno titolo. Da questa contraddizione nasce la consapevolezza che la liberazione delle donne non può essere solo una parte del cambiamento, ma un cambiamento radicale in sé.

È in questo contesto che emerge una delle frasi più emblematiche del femminismo: “il personale è politico”. A pronunciarla, nel 1969, è la femminista americana Carol Hanisch, ma il concetto diventa presto un manifesto collettivo. Significa che le esperienze intime e quotidiane delle donne – la maternità, la sessualità, la violenza domestica, la distribuzione del lavoro in casa – non sono problemi privati, ma conseguenze dirette di un sistema patriarcale che organizza la società e le relazioni. Il femminismo sposta così il confine della politica: non più solo lo spazio pubblico, ma anche la vita privata, la casa, il corpo. Parlare di sé diventa un atto di ribellione, una forma di presa di coscienza. Da qui nascono i gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne si incontrano per raccontarsi e riconoscere, nelle proprie esperienze personali, meccanismi comuni di oppressione.

L’arrivo in Italia e la nascita del separatismo femminista

Questo nuovo modo di pensare e di fare politica attraversa presto l’Atlantico e arriva in Italia, dove il contesto è diverso ma la sete di libertà è la stessa. Siamo negli anni Settanta, un decennio di grandi tensioni sociali e cambiamenti profondi: i movimenti studenteschi, le lotte operaie, la crisi dei ruoli tradizionali. In questo terreno fertile nasce il femminismo italiano, che prende ispirazione dalle esperienze americane ma sviluppa una propria voce originale, spesso più intima, più esistenziale.



Tra le prime e più importanti esperienze italiane c’è Rivolta Femminile, fondata nel 1970 a Roma da Carla Lonzi, Carla Accardi, ed Elvira Banotti. Lonzi, in particolare, è una figura centrale: critica d’arte, intellettuale e scrittrice, lascia il mondo accademico e maschile della critica artistica per dedicarsi interamente alla riflessione femminista. Nei suoi scritti – Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale, Taci, anzi parla – Lonzi afferma con forza la necessità per le donne di parlare con la propria voce, di liberarsi da qualsiasi mediazione maschile.



Da Rivolta Femminile nasce una pratica politica nuova: l’autocoscienza. Le donne si riuniscono in piccoli gruppi per raccontarsi, per scoprire che ciò che pensavano fosse un disagio personale è in realtà un’esperienza condivisa. In quelle stanze si parla di corpo, di sesso, di maternità, di desiderio, di lavoro domestico, di violenza. È lì che il motto “il personale è politico” prende forma concreta: la consapevolezza personale diventa materia politica.



Da questa pratica discende anche il separatismo, cioè la scelta di creare spazi solo femminili, liberi dall’influenza e dallo sguardo maschile. Non si tratta di odio o di chiusura, ma di un atto di libertà: la necessità di costruire una soggettività autonoma, di imparare a riconoscersi e a definirsi senza il filtro del patriarcato. I gruppi separatisti diventano luoghi di crescita, di relazione, di parola. Luoghi dove la differenza femminile si scopre e si valorizza.



In quegli stessi anni, un testo collettivo nato negli Stati Uniti, Noi e il nostro corpo, tradotto e diffuso anche in Italia, contribuisce a cambiare per sempre il modo di parlare del corpo femminile. È scritto da un gruppo di donne comuni, non da medici o esperti, e affronta temi come la sessualità, la salute riproduttiva, il piacere, la contraccezione, la maternità. Quel libro, tradotto, discusso e condiviso nei gruppi italiani, diventa un simbolo di conoscenza e di autodeterminazione: le donne si riappropriano del sapere sul proprio corpo, togliendolo di mano alla medicina e alle istituzioni maschili.



Dalla teoria alla pratica: la nascita dei centri antiviolenza

Da questi spazi di confronto e di libertà nascono anche nuove forme di azione concreta. A partire dalla fine degli anni Settanta, e poi negli anni Ottanta e Novanta, si moltiplicano in Italia i centri antiviolenza. Nati da gruppi di donne e da collettivi femministi, i centri rappresentano la continuazione naturale del pensiero separatista: luoghi costruiti da donne per le donne, dove la violenza maschile non è trattata come un fatto privato o patologico, ma come un problema politico e sociale. In questi centri, le donne trovano ascolto, protezione, solidarietà e strumenti per ricostruire la propria vita. Ma soprattutto trovano un riconoscimento: quello di non essere sole, di non essere colpevoli, di appartenere a una storia collettiva di resistenza.

Così, dal femminismo americano all’esperienza italiana, il percorso si intreccia in un filo continuo: dalla presa di coscienza individuale alla solidarietà collettiva, dal corpo al linguaggio, dal personale al politico. Il separatismo, lungi dall’essere un isolamento, diventa allora un modo per rinascere, per riscrivere il mondo partendo da sé.



E ancora oggi, nei centri antiviolenza, nelle reti femministe, nelle voci di tante donne che si raccontano e si ascoltano, risuona la stessa convinzione che animava le prime militanti: che la libertà comincia quando una donna riconosce nella propria storia una storia comune, e capisce che da lì può nascere il cambiamento.




L’eredità del separatismo oggi



A distanza di oltre cinquant’anni dalle prime pratiche di autocoscienza, l’eredità del femminismo degli anni Settanta continua a essere viva e, oggi più che mai, al centro del dibattito pubblico. Gli stessi principi che diedero vita ai centri antiviolenza e alle case rifugio – la sorellanza, la libertà, la consapevolezza, lo spazio sicuro per le donne – sono tornati prepotentemente alla ribalta in Italia in queste settimane.



Il recente caso dell’associazione Artemisia, espulsa dalla rete DiRe (Donne in Rete contro la Violenza) per la decisione di aprire le iscrizioni anche agli uomini, ha riacceso la discussione sul significato e sulla necessità del separatismo femminista. La scelta di DiRe di mantenere ferma la propria impostazione – quella di una rete formata e guidata esclusivamente da donne – non è una chiusura, ma la riaffermazione di una visione politica radicata nella storia del movimento femminista.

Come ricordano le attiviste di DiRe, i centri antiviolenza e le case rifugio femministe non sono soltanto luoghi di accoglienza, ma spazi politici dove le donne possono riconoscere e decostruire le radici della violenza maschile. Sono nati proprio come risposta autonoma e indipendente alla necessità di protezione, ma anche di rinascita: luoghi dove la violenza non è interpretata come un fatto privato o patologico, bensì come il risultato di una cultura patriarcale che assegna alle donne ruoli di subordinazione.



La presidente di Onda Rosa, Luisanna Porcu, ha spiegato chiaramente il senso di questa posizione: “La presenza solo femminile nelle associazioni che li gestiscono non è una discriminazione ma una scelta di libertà. Serve a spezzare le dinamiche di controllo e di dominio che la violenza maschile riproduce ovunque. Serve a garantire uno spazio sicuro, dove nessuno debba misurare le parole o tradurre il proprio dolore sotto lo sguardo maschile.”

Le parole di Porcu riassumono perfettamente la continuità tra il separatismo degli anni Settanta e le pratiche di oggi: senza spazi solo femminili, non ci sarebbe quella rete di sorellanza che, in mezzo secolo di impegno, ha permesso a migliaia di donne di trovare voce, forza, libertà.



La decisione di DiRe ha suscitato un vasto movimento di solidarietà: un appello, diffuso sui social e firmato da centinaia di femministe, ha riaffermato l’importanza di difendere questi spazi politici, soprattutto nel cammino verso il 25 Novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Proprio ora che le risorse pubbliche per i centri antiviolenza sono scarse e spesso gestite senza una visione strategica, questo l’accanimento su DiRe sembra una scelta politica per delegittimarne il ruolo. La rete DiRe ha inoltre denunciato la mancata consultazione dei centri femministi nella stesura del nuovo Piano Strategico Nazionale sulla Violenza Maschile contro le Donne, predisposto dal Dipartimento per le Pari Opportunità. Un’esclusione che, secondo le attiviste, dimostra come le istituzioni tendano a privilegiare un approccio punitivo e burocratico, trascurando le pratiche concrete e la conoscenza maturata in decenni di lavoro nei centri femministi.



DiRe ha espresso con forza la propria posizione: “Rivendichiamo l’importanza del riconoscimento dell’operato dei Centri antiviolenza con approccio di genere. Il nostro è un lungo cammino fatto di ascolto, protezione, affiancamento e diritti. Sconfessare questa storia significherebbe negare la nostra stessa storia femminista, perché ne andrebbero di mezzo tutte noi donne, i nostri bisogni, i nostri diritti, le nostre speranze.”

Un’eredità che continua

In questa presa di posizione si riflette tutto ciò che il femminismo ha costruito: la consapevolezza che la violenza maschile è un fatto politico, che il corpo e la parola delle donne devono restare liberi, e che senza spazi autonomi non c’è emancipazione possibile e non c’è libertà.

Così, il dibattito di oggi non è che l’eco di quello di ieri. Le donne che negli anni Settanta fondavano i primi collettivi e i centri di autocoscienza non avrebbero avuto dubbi: difendere il separatismo significa difendere la possibilità stessa di parlare, di esistere come soggetti liberi. E forse, proprio per questo, il femminismo continua a essere così vivo, così attuale, così necessario.